“È stupefacente quanto sia liberatorio l’essere capaci di vedere che i tuoi pensieri sono solo pensieri e che non sono ‘te stesso’ o ‘la realtà’ […]. Il semplice atto di riconoscere i tuoi pensieri come pensieri, può renderti libero dalla realtà distorta che essi spesso creano e genera un maggior senso di chiarezza e di padronanza sulla tua vita”[1]
La Mindfulness è uno stato mentale non-concettuale, non-discorsivo e non-linguistico che, principalmente, “apre” a degli insight che portano alla comprensione profonda del funzionamento della mente stessa; tale stato può essere coltivato e stabilizzato attraverso particolari tecniche.
Non è facile rendere a parole ciò che afferisce innanzitutto a un’esperienza vissuta, a uno stato mentale o a uno stato di coscienza. Ed è proprio per tale motivo che spesso si sceglie di non tradurre il termine inglese mindfulness (a sua volta derivato dall’originario termine sati in lingua pali). Le traduzioni più immediate, ossia “consapevolezza, attenzione, attenzione sollecita, presenza mentale, piena presenza”, rischiano infatti di dare il via a una serie di associazioni semantiche erronee e non esaustive.
Anche se il tradurre tale termine potrebbe risultare riduttivo nei confronti dello stesso creando, oltretutto, possibili fraintendimenti, può tuttavia essere utile dire cosa la mindfulness non è: non è una fuga dalla realtà; né una forma di trance; né una condizione “mistica”; né una modalità di rilassamento. In ogni cultura esistono delle pratiche che aiutano la persona a coltivare la consapevolezza del momento che si sta vivendo, altre che focalizzano l’attenzione dalla meditazione alla preghiera. Ognuna di esse ha il proprio approccio specifico ma ciò che le accomuna è il desiderio comune di trasformare la vita delle persone. La mindfulness si propone proprio questo: trasformare la vita delle persone attraverso la meditazione.
“Ciò che siete adesso è il risultato di ciò che eravate. Ciò che sarete domani, sarà il risultato di ciò che siete adesso. Le conseguenze di una mente malvagia vi seguiranno allo stesso modo in cui il carro segue il bue che lo tira. Le conseguenze di una mente purificata vi seguiranno come la vostra stessa ombra. Nessuno può fare più per voi della vostra stessa mente purificata, nessun genitore, nessun parente, nessun amico, nessuno. Una mente ben addestrata reca felicità”[2]
Mentre l’uomo viene cambiato esteriormente dalla civiltà, la meditazione lo ammorbidisce dall’interno attraverso la comprensione, che quanto più è maggiore, tanto più si riesce a essere flessibili e tolleranti. La mente diventa silenziosa e calma, la vita si appiana e si verifica una trasformazione personale. Invece che essere un conflitto continuo, la vita diventa qualcosa che scorre, e tutto ciò avviene attraverso la comprensione. “La meditazione non è qualcosa che potete imparare ricorrendo a termini astratti, non è qualcosa di cui parlare, ma è qualcosa di cui bisogna farne esperienza“[3]. La meditazione si propone di purificare la mente, di liberarla da quei sentimenti come l’odio, la gelosia e l’invidia che creano una schiavitù emotiva; conduce la mente a uno stato di tranquillità, migliora la capacità logica, la concentrazione e la capacità d’intuizione, e si arriva a una conoscenza delle cose, senza pregiudizio né inganno. Meditazione, dunque, come pratica di autoconoscenza, investigazione continua della realtà interiore ed esteriore per arrivare a eliminare la sofferenza attraverso un cammino di liberazione.
“Impieghiamo il nostro tempo assorbiti dalle attività, presi dall’eterna ricerca del piacere e della gratificazione, presi dall’eterna lotta contro il dolore e le cose spiacevoli. Noi impieghiamo tutte le nostre energie nel tentativo di sentirci meglio, cercando di diseppellire le nostre paure…”[4]
(tratto dalla mia tesi “Mindfulness: metodologia scientifica e saggezza orientale s’incontrano”)
[1] Jon Kabat-Zinn, Vivere momento per momento, p.58
[2] Henepola Gunaratana, La pratica della consapevolezza, p.20
Prima di spiegare che cosa indichi questo termine è importante fare una distinzione tra sacro e divino.
Secondo gli studi condotti da Luciana Percovich[1], il concetto di sacro è collegato al corpo femminile e alla conoscenza interiore. Indica la soglia tra umano e sovraumano ed è collegato al concetto del sapere spirituale che passa attraverso l’esperienza.
Il concetto di divino invece è collegato a un corpo maschile a seguito del furto di tutte quelle funzioni connesse al sacro.
Grazie al lavoro instancabile di M. Gimbutas[2] e alle sue scoperte archeologiche si è potuto costruire, con l’aiuto dei manufatti e dei simboli ricorrenti, la mitologia di un’epoca mai documentata prima; si parla del periodo compreso tra il 7000 e il 3500 a.C., periodo in cui si tracciano le linee peculiari e i contenuti di una religione che venerava l’universo come corpo vivente della Dea Madre Creatrice e tutto ciò che viveva al suo interno.
Elementi naturali ritenuti importanti, come la luna o la terra o il mare, hanno dato vita a una simbologia associata a un dominio sacro femminile, detto femminino sacro, ovvero un modello archetipico e simbolico al quale sono connesse accezioni riferentesi alla maternità, alla luce lunare, all’accoglimento e alla conservazione.
Al simbolo di carattere lunare si contrappose quello solare (maschile), ma nel caso della terra, invece, questa rivestì una sacralità preponderante che non fu messa in discussione nel mondo antico in quanto considerata principio di vita e di rigenerazione.
Nella preistoria esisteva il culto della Grande Madre, intesa come prima forma di un divino, la sacralità del principio femminile. Infatti, gli uomini primitivi erano collegati alla natura e dipendevano da essa, avevano imparato a intravedere un collegamento tra la propria esistenza e la ciclicità delle stagioni e delle fasi lunari: luna crescente, piena e calante. Lo studio della luna e dei suoi cicli di 28 giorni portò alla divinizzazione dell’astro e, allo stesso tempo, il suo legame con il ciclo mestruale femminile e il movimento delle maree portò gli studiosi a collegarla all’elemento acqua.
Le tre fasi lunari iniziarono a rappresentare precise divinità: luna crescente/Artemide, divinità cardine del femminino sacro; luna calante/simbolo dell’elemento ctonio della natura, diede vita a divinità e personaggi mitologici con caratteristiche comuni e medesimi significati, unificati tutti sotto il nome di dea oscura come, ad esempio, Lilith.
Il concetto della triade lo si ritrova, come segno sacro, inciso nelle ossa rinvenute; lo si ritrova nella simbologia cristologica legata alle tre Marie: Maria madre di Gesù, Maria Maddalena, Maria di Cleofa discepola di Gesù. La presenza della triade in diverse culture contribuì a dare al numero tre un carattere sacro e alla dea Luna, la quale si manifesta in triade per dimostrare la propria divinità, il numero nove che rappresenta le sue tre persone (vergine, ninfa, vegliarda).
Analizzando le leggende popolari, emergono un po’ ovunque lati oscuri del femminino sacro che evidenziano come, in un preciso momento storico, la natura del femminile sia stata demonizzata e riadattata secondo il contesto storico- culturale.
Tale demonizzazione è stata possibile perché la prima forma di comunicazione complessa, di cui oggi non esiste una definizione unica e definitiva, era il simbolo. Questo, per sua natura, tende a essere posto fuori dal tempo e la sua funzione è quella di rendere astratto un concetto significativo e di farlo evocare, ma ha anche la caratteristica di assumere significati diversi a seconda del contesto etnico-culturale in cui è collocato. Il simbolo diventa un potente strumento di richiamo identitario e sociale rivolto a chi è capace di riconoscersi in esso. Ecco perché è stato possibile, in un preciso momento storico, demonizzare ciò che in passato era considerato sacro.
I simboli, come il linguaggio, sono il riflesso dell’evoluzione biologica dell’uomo ma anche del suo progresso storico, culturale e sociale. Nel caso del femminile, gli antichi simboli sono stati strumentalizzati. Lo sviluppo della società patriarcale ha assopito i nostri istinti e fatto dimenticare la sapienza istintiva.
I reperti archeologici, attraverso i simboli, parlano però di un passato che deve essere riscoperto, di un tempo in cui il femminile era venerato e ritenuto sacro. Tali reperti dicono di una Dea del Neolitico datrice di vita, fertilità e di morte, collegata non solo agli esseri umani ma anche a tutto ciò che vi è sulla terra e nel cosmo; collegata a essa vi è un sistema simbolico che rappresenta il tempo in modo ciclico, nel rispetto della natura, e non lineare. Si hanno molte immagini di spirali, cerchi, mezzelune, serpenti per indicare il principio di rigenerazione e l’energia della vita, e lo stesso serpente, quindi, non aveva ancora assunto il significato di essere malvagio coincidente con il male, significato attribuitogli in seguito dal sistema simbolico indoeuropeo. Il serpente rappresenta l’esempio più semplice per comprendere come il simbolo acquisisca una certa valenza a seconda del contesto storico-sociale in cui è calato. Non vi sono immagini né di guerrieri né di guerra, e i reperti mostrano una società incentrata sulla Dea dove non vi era il predominio dell’uomo sulla donna ma, al contrario, quest’ultima era solitamente sacerdotessa o al vertice di qualche clan o comunque in una posizione di potere e, nonostante ciò, il sistema sociale non era né patriarcale né matriarcale.
Attorno al V sec a.C. l’arrivo di una nuova ondata migratoria portò in Europa la cultura Kurgan che modificò definitivamente il volto della società e della storia europea, in quanto iniziarono ad affermarsi concetti come “patriarcato”, “patrilinearità” e “culto del cavallo e delle armi”.
L’aggressività, le invasioni e le guerre non hanno però cancellato il volto della Dea che, dormiente per diversi secoli, ha continuato però a pulsare in ognuno di noi.
Indicazioni bibliografiche:
M. Gimbutas, Il linguaggio della dea
E. Neumann, La Grande Madre
L. Percovich, Oscure madri splendenti
[1] Docente e ricercatrice della Libera Università delle Donne di Milano, ha scritto molti articoli e testi inerenti al sacro femminile e alla riscoperta del Sé.
[2] Archeologa, esperta nello studio del mito e della preistoria dell’Europa Antica e studiosa della Grande Dea.
Nel corso dei secoli, l’immagine dell’archetipo Femminile che racchiude in sé il potere di generare e trasformare attraversa un processo di evoluzione e diventa “figura-mana”[1]. Se in origine tale archetipo viene rappresentato con le sembianze di un animale, in seguito, a causa del progresso della società, si trasforma in una divinità dalla forma umana, accanto alla quale vi è l’animale come attributo e non più come simbolo precipuo del Femminile. La medesima cosa accade per altri simboli legati alla Dea, come ad esempio il vaso o il calderone magico, i quali vengono raffigurati vicino o in mano a una figura femminile, sacerdotessa o strega.
«La figura mana femminile che rappresenta nel modo più evidente tale principio trasformatore nell’antichità è Medea. In lei vive la forma del matriarcato che tramonta e viene svalutato dal patriarcato; in lei la realtà mitica che essa propriamente rappresenta è già personalizzata, cioè ridotta a dimensioni personalistiche e negativizzata. Come Circe, in origine essa era una dea, divenuta, però, nel mito improntato a una tonalità patriarcale, strega»[2].
Tutto ciò lascia intendere che nel momento stesso in cui iniziano a essere evidenziati i caratteri trasformatori della Grande Madre, e quindi legati a un’evoluzione di carattere spirituale, la società maschile non riesce ad accettare e riconoscere tale aspetto del Femminile al punto da rinnegarlo e trasformarlo in un tabù. Nonostante ciò, il mondo patriarcale non è riuscito a cancellare la valenza magica del carattere di trasformazione del Femminile, il quale, attraverso l’esperienza diretta di sofferenza e morte, sacrificio e dolore, porta in sé la trasformazione e la rinascita. Tutti gli antichi simboli – il vaso, il calderone, la grotta, l’oceano e molti altri – racchiudono in sé il concetto che la rinascita può avvenire solo all’interno dell’oscurità del grembo materno, sia esso un vaso, una grotta o altro: «I fenomeni di rinascita possono avvenire nel sonno in una caverna notturna, nella discesa in un mondo sotterraneo di spiriti e defunti, nel viaggio notturno sul mare […]. In ogni caso il ritorno al rinnovamento risulta possibile solo dopo la morte dell’antica personalità»[3].
Sin dall’antichità, le testimonianze riportano il ruolo della donna come figura mana, come referente della funzione magica sia positiva che negativa, una funzione svolta sia da gruppi di donne che da singole sacerdotesse:
«Dal punto di vista psicologico ciò è del tutto comprensibile: mentre, infatti, il mondo maschile è giunto, tramite l’evoluzione della coscienza maschile e dello spirito razionale, alla sua produzione specifica, la psiche della donna dipende in misura molto più elevata dalla produttività dell’inconscio, che è legata strettamente a una coscienza che definiamo per tale motivo ʽmatriarcaleʼ[…]. La coscienza matriarcale, prossima a questa realtà è fortemente aperta alle potenze dell’inconscio, è, proprio nell’essere femminile, originariamente più forte e meno coperta dalla forma astraente della coscienza patriarcale»[4].
La donna, quindi, ha una predisposizione naturale al magico, al transpersonale, a seguire le intuizioni scaturite dall’inconscio, cosa che l’uomo ha difficoltà a fare perché guidato dalla ratio.
[1] Termine diffuso in molte lingue austronesiane della Melanesia e della Polinesia, con il significato generale di «forza sovrannaturale», «potere spirituale», «efficacia simbolica». Nell’ambito dell’evoluzionismo antropologico, il mana era una forza impersonale tipica delle religioni pre-animiste o delle credenze magiche. L’antropologo R. Keesing ha rianalizzato, alla luce di ricerche storiche, etnografiche e comparative, i vari usi del termine nelle società melanesiane e polinesiane: viene usato come verbo per indicare «l’essere efficace», «l’essere potente» o il «rendere efficace»; come un sostantivo indicante «l’efficacia», il «potere», la «benedizione», la «potenza», quindi, tenendo conto della molteplicità di significati che tale termine assume nelle lingue locali, appare riduttivo cercare di legare tale termine ad una classificazione rigida e teorica.
I simboli sono stati la prima rappresentazione della Dea e, primariamente, appaiono quelli più semplici come i cerchi e le spirali, simboli definiti astratti e che rappresentano molto bene l’invisibilità dell’archetipo. Con lo sviluppo psichico essi si completano sempre più con un contenuto di senso a livello della struttura, un esempio di ciò è l’immagine dell’Uroboro, il serpente circolare che si morde la coda. Esso è il simbolo della situazione psichica originaria, quando la coscienza e l’Io dell’uomo sono piccoli e non sviluppati; contiene elementi positivi e negativi, femminili e maschili; rappresenta la totalità, è l’archetipo primordiale che racchiude tutto. Il passaggio da Uroboro ad archetipo del femminile e in seguito a Grande Madre è fluido in quanto ci troviamo ancora a livello inconscio. Quando predomina l’Archetipo del femminile significa che emergono più attributi caratteristici del femminile privi però di ordine, invisibili e incomprensibili per l’Io che li esperisce. In esso sono presenti seppur in minoranza caratteri del maschile.
Il passaggio alla Grande Madre avviene quando gli elementi che essa racchiude iniziano a essere messi in ordine; la Grande Madre inizia ad assumere una triplice forma: Madre buona, terribile, buona e cattiva; l’insieme delle tre costituisce ciò che viene definito un gruppo archetipico coerente.
La parola archetipo, che significa immagine o modello originario, deriva dal greco archè (origine, principio) e dal termine typos (modello, marchio, esemplare), pertanto, già dai suoi etimi, si può dedurre che l’archetipo è il principio primo, universale.
Tale termine fu introdotto dai filosofi greci proprio in riferimento ai princìpi universali, ai modelli preesistenti della realtà e si ritiene che da queste idee universali, presenti nella mente di Dio, si sia originata la realtà; è strettamente collegato alla dottrina delle idee di Platone, secondo il quale i concetti risiedono nella loro purezza e astrazione in un luogo che si chiama Iperuranio. Sono princìpi immutabili, quindi non soggetti al divenire e al mutamento; per Platone le idee esistono a prescindere dalla realtà.
In realtà, che cosa sia l’archetipo non è dato sapere in quanto non può essere conosciuto in modo chiaro e diretto, non può essere compreso dalla mente razionale perché non agisce su questo piano di realtà. Si tratta di una realtà sfuggente ma attiva, la cui origine è sconosciuta ma è ben nota la sua esistenza già prima di Jung, proprio grazie ai filosofi greci. Tuttavia, Jung ebbe il merito di rendersi conto che in tutte le epoche e in tutti gli uomini sono presenti tematiche simili rappresentate da immagini e forme mitologiche, inoltre, scoprì che l’archetipo, pur essendo inconoscibile in sé, è diverso dall’immagine archetipica che è l’aspetto fenomenico e, quindi, non è solo immagine ma anche forza. Questo vuol dire che l’archetipo è sì un’immagine ma collegata a un’emozione, «gli archetipi non sono solo immagini archetipiche, ma anche emozione. Se anzi questi due aspetti non si presentano nello stesso momento non possiamo parlare di archetipi»[1].
Infatti, gli archetipi non sono entità astratte che non toccano la vita quotidiana del soggetto, in realtà sono strumenti della psiche che, se dotati di energia sufficiente, permettono la formazione di immagini archetipiche che, a loro volta, se investite di eccessiva energia, provocano un disequilibrio psichico che può anche portare alla dissociazione della psiche stessa, fino a prendere il controllo degli stati emotivi, delle azioni e rendendo il soggetto schiavo della propria Ombra. Ciò accade perché ogni archetipo esprime una qualità che può manifestarsi come luce quando è armonica e come ombra quando è disarmonica. Luce-ombra sono aspetti presenti in ogni forza archetipica, pertanto, identificare l’Exù con il diavolo e ombra in senso assoluto è errato.
Gli stessi orixà dello sciamanesimo brasiliano sono rappresentazioni archetipiche di una forza la cui conoscenza non può passare dal piano cognitivo ma bisogna fare esperienza dell’archetipo/orixà per comprenderlo; ciò a dimostrazione che l’archetipo è inconoscibile sul piano razionale.
Tutto ciò viene confermato dai diversi studiosi che partendo da Jung, hanno approfondito lo studio sugli archetipi, a prescindere che essi siano psicologi, psicoterapeuti o altro; anche un emerito filosofo italiano, Elémire Zolla afferma che:
L’archetipo non è un concetto, ma una energia plastica, generativa. Chi vive prossimo al suo archetipo è al massimo della vitalità, demonico, paradigmatico e del tutto dimentico delle condizioni materiali che lo circondano e ne compongono l’apparenza sensibile. Gli archetipi sono quindi schemi carichi di energia emotiva e simbolica. […] La ragione da sola non li afferra, perché coglie soltanto i significati, non la significatività…pertanto non si possono esprimere in un linguaggio ordinario.[2]
Jung ebbe il merito di aver suscitato l’interesse verso il concetto di archetipo. Infatti, Erich Neumann approfondisce lo studio di tale concetto e inizia a parlare di archetipo in chiave evolutiva, ovvero dice che come il corpo è composto da organi fisici così la psiche è composta da organi psichici, cioè gli archetipi. Anche secondo Neumann sono modelli originari con specifiche funzioni e caratteristiche; si sviluppano e agiscono nell’inconscio e sono sempre attivi anche se non ce ne accorgiamo. In particolare, Neumann, nella sua opera “La Grande Madre” affrontando il tema dell’archetipo, entra ancora di più del dettaglio e afferma che si devono riconoscere nell’archetipo tre aspetti:
1. la dinamica ovvero le componenti emotive, essa si manifesta attraverso emozioni positive e negative. Ogni stato d’animo che investe l’individuo è un ‘espressione dell’effetto dinamico dell’archetipo a prescindere che tale effetto sia accettato o rifiutato dalla coscienza umana.
2. Il simbolismo, cioè le componenti contenutistiche, ovvero la forma in cui si manifesta e sono diverse per ogni archetipo
3. la struttura ovvero le componenti contenutistiche, il senso contenuto in esso e che deve essere compreso dalla coscienza.
Il comportamento umano è determinato dall’archetipo, a prescindere che l’individuo ne sia più o meno cosciente. «L’archetipo non è soltanto immagine in sé, ma al tempo stesso anche dynamis»[3]. L’archetipo diventa visibile per la coscienza attraverso il simbolo ma le immagini simboliche, in quanto rappresentazioni archetipiche, non sono l’archetipo in sé. «L’archetipo in sé è un fattore oscuro, una disposizione, che, in un dato momento dello sviluppo dello spirito umano, comincia ad agire, ordinando il materiale della coscienza in figure determinate»[4]. I simboli rappresentano l’aspetto visibile dell’archetipo che, di per sé, è un’entità al di fuori dello spazio, del tempo ed invisibile; si tratta di una manifestazione spontanea dell’inconscio e agisce indipendentemente dalla situazione psichica dell’individuo. I simboli, in quanto rappresentano l’aspetto visibile dell’archetipo, posseggono una componente dinamica e una contenutistica; quest’ultima mette in moto la coscienza che, sollecitata dal simbolo, dirige verso esso il suo interesse per comprenderlo. A seguito di ciò si può affermare che il simbolo non è solo trasformatore di energia ma anche formatore di coscienza poiché, partendo dai contenuti inconsci compresi nel simbolo, si giunge alla creazione di idee e concetti che cercano di spiegare cosa sia l’archetipo, senza tuttavia riuscirci pienamente in quanto la rappresentazione simbolica, come Jung afferma:
Ciò che un contenuto archetipico sempre esprime è, anzitutto, una similitudine. Se esso parla del sole, identificandolo con il leone, con il re, con l’oro custodito dai dragoni, o con la vitalità o la salute degli uomini, esso non è né l’uno, né l’altro, bensì un terzo ignoto che può venir espresso più o meno adeguatamente per mezzo di tutte quelle similitudini, ma che- a eterno dispetto dell’intelletto- rimane fatalmente ignoto e indefinibile.[5]
Per Neumann, quindi, il simbolo allude a qualcosa, mette in movimento la coscienza e la induce a usare tutte le funzioni coscienti per poter elaborare il simbolo stesso. La comprensione del simbolo da parte della coscienza non indica che l’archetipo sia stato compreso ma solo che vi è un tentativo di portare sul piano di realtà un qualcosa che appartiene ad una dimensione diversa e quindi non può essere colto pienamente.
I primi simboli che emergono sono quelli più semplici, come il cerchio e la croce, che vengono definiti astratti e rappresentano molto bene l’invisibilità dell’archetipo. Con lo sviluppo della coscienza, si completano sempre più con un contenuto di senso a livello della struttura.
Un ulteriore studioso e allievo di Jung, James Hillman, porta avanti lo studio degli archetipi e delinea una psicologia archetipica che abbraccia le forme culturali e immaginative dell’arte, della poesia, della letteratura e in particolar modo del mito, staccandosi dalla classica seduta psicologica. La psicologia archetipica considera strettamente collegate la mitologia e la psicologia; i miti sono narrazioni importanti poiché lasciano traccia del rapporto tra uomini e Dei, parlano di temi universali ed eterni comuni a tutta l’umanità. Anche Hillman parla del viaggio che ognuno deve compiere dentro la propria anima, perché la guarigione avviene grazie a esso e al riconoscimento degli archetipi che stanno agendo.
[5] Neumann,1981, p. 27. Citazione che Neumann ha tratto dal libro di C.G. Jung e K. Krényi Il fanciullo divino. Psicologia dell’Archetipo del Fanciullo, in Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia.
Abbiamo medici per tutto e per ogni cosa, ma cosa facciamo quando a soffrire è il nostro spirito?
Ogni volta che viviamo un trauma, una parte vitale della nostra essenza se ne va, si allontana, si separa da noi per sfuggire all’esperienza traumatica, in pratica si verifica quello che nelle culture antiche è chiamato: la perdita dell’anima. Essa è una malattia dello spirito e lo psicologo e lo psicoterapeuta possono poco in questo caso. Essi possono aiutare a ricomporre quelle parti di anima che sono a “casa”. Dunque, se una parte della nostra essenza si è allontanata da casa, come possiamo riportarla a noi?
Lo sciamanesimo e l’attività dello sciamano possono rispondere a questa domanda.
Al giorno d’oggi un po’ tutti soffriamo di un senso di vuoto, di incompletezza, sentiamo il bisogno di entrare in contatto con noi stessi e questa sensazione di vuoto ci provoca grande sofferenza.
La perdita dell’anima nella società attuale deriva da situazioni traumatiche quali violenze, incidenti, guerre, malattie; di fronte a queste situazioni la nostra anima può abbandonare il corpo e non tornare più, andando a rifugiarsi in altri luoghi della realtà non ordinaria. Al giorno d’oggi, la perdita dell’anima si manifesta come un improvviso attacco di apatia e indifferenza; si è persa la gioia di vivere, lo spirito di iniziativa, e tutto sembra inutile.
La psicologia così come lo sciamanesimo riconoscono che parti della personalità possono frammentarsi lasciando l’individuo separato dal suo nucleo centrale.
Per lo psicologo, le parti separate si perdono nell’inconscio e il suo compito è quello di aiutare il paziente a richiamare e reintegrare le parti perdute.
Per lo sciamano, invece, è importante sapere dove vanno queste parti per poter attivare il processo di cura.
Secondo lo sciamanesimo, queste parti non vanno in una zona indefinita ma piuttosto vivono vite parallele nei mondi della realtà non ordinaria, in posti piacevoli oppure spaventosi, e lo sciamano, attraverso il viaggio sciamanico, può recuperare queste parti e riportarle al paziente.
Il “dreamcatcher” in genere viene associato agli indigeni del Nord America, in particolare alle tribù Cheyenne e Dakota, anche se la storia offre testimonianze antecedenti, addirittura al 300a.C. in India.
Questi oggetti, piccoli e leggeri, non più grandi di un palmo di mano, venivano realizzati con ciò che si trovava in abbondanza in natura: legni morbidi, foglie, piume d’uccello, pietre, semi, etc. ed era un segno di riconoscimento sociale all’interno delle tribù americane. Infatti, venivano appesi fuori dalle proprie tende e informavano il visitatore in merito alla professione praticata da chi abitava la tenda: se era un esperto di caccia, oppure un guerriero o forse un guaritore.
Alcune leggende, però, narrano che la funzione di questo oggetto era di proteggere i bambini dai brutti sogni, pertanto venivano appesi sopra le culle e donati alle donne gravide per proteggere i nascituri.
Quando le Americhe furono scoperte e iniziò l’invasione dei colonizzatori, questo oggetto perse il suo significato originale e divenne uno scaccia-incubi, utilizzato per allontanare i brutti sogni.
Tuttavia, secondo i nativi americani, tale oggetto partecipa alla crescita spirituale di chi lo possiede in quanto favorisce pensieri positivi e ricchi di significato, che rimangono come messaggi da interpretare per progredire nella vita, allontanando le energie negative. In origine era composto da:
Un cerchio esterno in legno flessibile, in genere di salice, che simboleggia il ciclo dell’universo e della vita.
La rete centrale, realizzata con fili ricamati a tela di ragno, che simboleggia l’instabilità del mondo dei sogni. Durante la notte, il foro centrale fa passar solo i sogni buoni, mentre quelli cattivi restano intrappolati nella rete e si disperdono con le prime luci del mattino.
Le perline e altre decorazioni poste nella rete servono ad allontanare le energie negative e a trattenere i pensieri positivi, i quali possono tornare alla mente durante la giornata per dare il loro messaggio.
Le piume, che terminano e decorano la parte sotto il cerchio, simboleggiano l’aria, il volo degli uccelli e, quindi, la libertà. In particolare, le piume di gufo rappresentano la saggezza, quelle di un’aquila il coraggio.
Può essere posizionato sull’uscio di un ingresso oppure in camera da letto, in modo tale da restare al buio durante la notte e garantire alla luce del giorno di attraversare il buco centrale per liberare gli incubi restati imprigionati.
Al giorno d’oggi si possono trovare diverse tipologie di acchiappasogni costruiti con tecniche diverse.
Agua De Florida è composta da un mix di fiori raccolti in luoghi mistici che le donano una forza unica nel suo genere. È un’acqua eccellente da utilizzare nella ritualistica; utile per la pulizia delle energie di un ambiente, di un oggetto o di una persona; ristabilisce il riequilibrio energetico.
Il suo impiego richiama energie spirituali elevate, armonizza il campo astrale, purifica e riequilibra l’aura. Indossata come fosse un profumo agisce da protettore. L’utilizzo di questa acqua sciamanica può essere utile quando siamo di fronte a un ristagno energetico, quando ci sentiamo privi di forze o ansiosi. Purificare gli ambienti prima e dopo il contatto con terze persone. Associando Agua De Florida a Agua De Ruda si promuove in particolare modo la buona sorte. Si può utilizzare direttamente sul corpo, oppure vaporizzare con uno spruzzino negli ambienti.
L’ Acqua di Kananga è una lozione a base di Kananga (Ylang Ylang) che, nella tradizione esoterica, esercita un potere straordinario a livello di attrazione e seduzione. È utilizzata anche per propiziare la buona sorte e favorire la fortuna, specialmente in ambito commerciale. L’ Acqua di Kananga protegge persone e luoghi dalle energie negative. Si dice che il solo fatto di indossare questo aroma crei un alone di fascino misterioso e di attrazione. Per armonizzare un ambiente occorre colmare un bicchiere con Acqua di Kananga e lasciarlo evaporare. La stessa pratica si può eseguire come offerta ai propri spiriti aiutanti o ai defunti. Diluita nell’acqua, durante il bagno, libera dalle cattive influenze e attira la buona sorte.
Agua De Rudaè una colonia a base di Ruta e fiori di Ruta, in grado di creare uno scudo contro le negatività e le invidie. È una lozione speciale che si impiega per allontanare il male, spezzare il malocchio, rompere le invidie e promuovere la fortuna. Quest’ acqua sciamanica è in grado di sostituire pienamente la Ruta fresca, soprattutto nelle stagioni in cui non è naturalmente disponibile. Fin dai tempi antichi, la Ruta è un’erba comune che viene impiegata per allontanare le negatività, e si pensa sia in grado di togliere il malocchio.
L’ oggetto di potere può servire da tramite per entrare in contatto con alcuni esseri o presenze.
Gli sciamani mongoli utilizzano degli specchi particolari per entrare in contatto con gli spiriti e scacciarli. Altri sciamani del centro America utilizzano altri oggetti per fare delle estrazioni energetiche. Ogni tradizione ha i suoi metodi, ma ciò che le accomuna è l’intento posto alla nascita di un oggetto di potere.
Gli oggetti di potere possono essere molteplici e diversi a seconda della tradizione sciamanica di riferimento.
Una pipa, un tamburo, un cristallo, una maschera, quando infusi di un intento e avvolti in un’atmosfera di sacralità divengono oggetti di potere. Il loro uso, in determinate circostanze, è ciò che li rende un mezzo per dar vita a tutte le pratiche sciamaniche. Si chiamano oggetti di potere perché contribuiscono all’aumento del potere dello sciamano anche se non si sostituiscono mai a quello che è il suo potere interiore.
In ogni tradizione nativa, gli sciamani posseggono un insieme di oggetti che utilizzano continuativamente per diversi scopi. Si tratta di quello che possiamo definire il kit dello sciamano. Ma il semplice possesso di un elenco di oggetti non renderà questi ultimi oggetti di potere. Sarà la connessione con il tuo potere, il significato che hanno per te e per la tua vita, l’intento che ci avrai messo, che li renderà tali.
Di norma lo sciamano crea il suo kit duranteil periodo di apprendistato a contatto con il suo Maestro e i curanderos. Questi ultimi possono appartenere a differenti tradizioni, anche non native.
Tutto può diventare un oggetto di potere. Oggetti per suonare come il tamburo, i sonagli o il flauto, gli amuleti e i talismani, gli oggetti creati con le proprie mani o presi in prestito dalla natura, gli oggetti di cura e di pulizia come l’Agua de Florìda. L’importante è che l’oggetto abbia un significato per te e per la tua vita e che sia un mezzo per realizzare un intento. Lo sciamano utilizza regolarmente il suo kit e, attraverso quest’uso prolungato, i suoi oggetti acquisiscono un potere. Il rapporto di possesso non crea dei limiti qualora lo sciamano si trovi sprovvisto dei suoi oggetti di potere. Il vero potere è sempre quello interiore.
Il Maestro può caricare della sua energia e di un intento ben preciso un oggetto e poi donarlo al suo allievo affinché diventi un oggetto di potere per quest’ultimo.
Il tamburo sciamanico, ad esempio, è un oggetto di potere che subisce una vera e propria attivazione attraverso l’intento, il che lo rende uno degli oggetti principe della cultura sciamanica.
-purificare l’atmosfera per cancellare pensieri negativi, emozioni incontrollate, spiriti bassi.
– purificare la casa e il giardino: per la casa si devono tenere le finestre chiuse, riempire le stanze di fumo soprattutto gli angoli dopodichè aprire le finestre affinchè il fumo esca e con esso anche le energie negative intrappolate (fondamentale sostenere tutto il cerimoniale con la forza del pensiero)
– purificazione dell’aura: utile prima di andare a dormire in modo da liberare il proprio campo di energie negative che ci sono rimaste attaccate durante la giornata. Prima di ciò è utile fare una doccia o un bagno.
RESINE DI PURIFICAZIONE:
ASSAFETIDA/STERCO DEL DIAVOLO/FINOCCHIO FETIDO: si tratta di una resina che gli sciamani tibetani usano per scacciare i demoni delle malattie e per cacciare streghe, demoni, maledizioni. Ha un odore penetrante e molto simile all’aglio. Molto usata nella medicina ayurvedica, aiuta a guarire gli stati di choc e crisi di panico, è un potente neurotonico.
COPALE NERO: è una delle resine più importanti in Messico e Sud America. Irradia un senso di devozione e un timore reverenziale. Ha il potere di liberare l’atmosfera da tutte le oscurità, scaccia i demoni mentre rallegra gli esseri luminosi che si sentono attratti dal luogo purificato. Aiuta anche negli stati depressivi.
EUCALIPTO: in genere è conosciuto come albero della febbre per la sua azione mucolitica e germicida, ma è anche uno straordinario purificatore dell’aria degli ambienti chiusi; alleggerisce la testa da ogni peso e ci riporta alla leggerezza; aiuta contro la letargia e l’apatia.
OLIBANO: è una resina dell’albero dell’incenso. Libera l’atmosfera dalle energie oscure e attira gli spiriti buoni. Nelle chiese viene usato come incenso per aprire i sensi ai mondi delle energie sottili. Ha effetto anticoagulante.
RESINE PER LA PROTEZIONE
Nel mondo esistono diverse energie e con vibrazioni diverse che non sempre riusciamo a cogliere, mentre gli animali, come i cani, sentono uno spettro più ampio di frequenze rispetto a noi. Esistono energie che cercano di attirarci, si nutrono del nostro dolore e devono rafforzarlo e mantenerlo in vita perché dipendono da esso. Queste energie vogliono acquisire un influsso su di noi e indebolirci in modo da non permetterci di ascendere alle dimensioni più luminose. Le resine che ci aiutano a proteggerci: basilico sacro (Tulsi), artemisia, ambra, sangue di drago, corteccia di quercia, opoponax, timo, ginepro, cedro.
AMBRA: è una resina fossile rimasta sottoterra per 15-200 milioni di anni fino a che non è diventata nuovamente disponibile. L’ambra è come se portasse con sé la storia della Madre Terra con tutti gli esseri che la popolano. Bruciare l’ambra deve essere fatto con devozione e riverenza, in quanto ci rende partecipi di tutto il suo antico sapere. Ha il potere di dissolvere le paure nell’aria, di farci entrare in contatto con la nostra sapienza originaria e darci la sicurezza che va tutto bene così com’è. Libera il cuore da impulsi tristi e aiuta a lasciare andare le emozioni negative.
ARTEMISIA: è una delle piante rituali più antiche dell’umanità. Deriva dalla dea greca Artemide, protettrice di donne e bambini. È utile contro i disturbi mestruali e allevia il dolore del parto.
Scaccia spiriti e demoni, e crea una cintura di protezione. Aiuta a lasciar andare ciò che è vecchio e ad accogliere il nuovo.
BASILICO SACRO/TULSI: pianta molto venerata in India. La gente l’appende fuori dalla casa perché ha una funzione protettiva tenendo lontane le energie negative. Bruciando le foglie e inalandone il profumo, si attua una purificazione interiore profonda. Chiarezza e compassione sono rafforzati facilitando il contatto con le energie divine. Il tulsi si può bere anche come tisana, scaccia ogni oscurità.
OPOPONAX: imparentato con la mirra, l’albero cresce in Etiopia e in Somalia. Ha un effetto profondo sulla nostra vita spirituale, acuisce i sensi e ci permette di rilassarci e abbandonare ogni peso. La sua energia ci avvolge e non permette a nulla di negativo di penetrare in noi.
SANGUE DI DRAGO: si brucia per aspirarne il profumo quando ci si vuole proteggere da demoni bassi, spiriti di malattie ed energie negative. Come un drago, ci sorveglia e fa entrare solo energie che hanno una certa vibrazione. Ha un effetto di radicamento a terra e ,grazie al suo colore rosso, influisce positivamente sul chakra della radice.
RESINE PER IL RILASSAMENTO
PALO SANTO: cresce in Sud America e in particolare in Perù. Scaccia le energie negative e conduce la meditazione in profondità. Calma il flusso dei pensieri, aiuta a sciogliere le paure, ci rilassa e ci apre per momenti spirituali.
RESINA DI DAMMAR: considerata un po’ la resina degli angeli per il suo aspetto luminoso e chiaro, può far dimenticare le depressioni e le ferite spirituali più profonde. Crea un forte legame con le dimensioni più elevate, che restano poi al nostro fianco per aiutarci. Favorisce la chiaroveggenza e facilita la visione sulle altre dimensioni .